Recensione: I miei anni con Freddie Mercury di Jim Hutton e Tim Hapshott



C'è da sempre nella figura e nella vita di Freddie Mercury un alone di mistero, in parte certamente voluto sopratutto agli inizi della sua carriera, che ha determinato un interesse crescente dei media e del pubblico che, all'indomani della sua morte, ha generato una serie di libri, alcuni catalogabili come buoni tentativi di raccontarne la storia, altri semplicemente cestinabili. 


È difficile stabilire a quale categoria appartenga l'auto-biografia scritta da Jim Hutton (in collaborazione con il giornalista Tim Hapshott), perché un libro cambia in funzione del lettore e della sensibilità di cui questi è portatore. Certo, ci sono alcuni elementi oggetti e quindi indiscutibili, come lo stile, la validità della trama e la qualità della scrittura. Ma, in generale, un racconto funziona esclusivamente in funzione di chi legge, tanto che per certi versi l'autore stesso scompare dietro le parole e la storia diventa, giustamente, l'unica e sola protagonista. Questo è un principio valido essenzialmente per i romanzi, ma meno efficace quando si tratta di una biografia che, al di là delle licenze poetiche e narrative, deve restare la più fedele possibile ai fatti. 

Non è semplice raccontare la storia, soprattutto perché quando se ne è stati in qualche modo parte o addirittura protagonisti è pressoché impossibile rinunciare al filtro del proprio punto di vista. A ben vedere ogni storia ha infiniti lati e quindi altrettante visioni soggettive e forse per conoscerla davvero sarebbe necessario concedere la parola a tutti i protagonisti, un'impresa ardua, la maggior parte delle volte impossibile. 

È questa la ragione per la quale non sono un fan delle auto-biografie che, nella migliore delle ipotesi, finiscono col diventare un frammento narrativo di parte, portatore quindi di confusione più che di verità. Ciò non significa che le auto-biografie non siano interessanti, anzi proprio il conoscere il punto di vista di un protagonista determina una grande curiosità, forse simile a quella sottile eccitazione che si prova dal barbiere quando, durante l'attesa, di sfogliano con malcelata indifferenza le riviste di gossip. 

E allora come ci si deve porre al cospetto del libro di Hutton? Con la convinzione che il Freddie raccontato in queste pagine non sia completo, ma solo il risultato della percezione e dell'esperienza che Hutton ha maturato durante la sua relazione col cantante.

Un po' di tempo fa, poco prima della sua morte, ho avuto modo di interagire con Jim attraverso facebook. Mi è capitato spesso di inviare mail o inviti in chat a personaggi più o meno famosi o comunque rilevanti rispetto ai Queen, e qualche volta ho la fortuna di ricevere una risposta. Con Jim l'argomento erano i duetti con Michael Jackson. Speravo che potesse offrirmi qualche ragguaglio sull'esistenza di Victory. Fu molto gentile e mi raccontò dell'amicizia tra Freddie e Micheal, che Jim aveva vissuto comunque a posteriori avendo conosciuto il cantante dei Queen solo dopo la fatidica collaborazione tra i due artisti. Tuttavia mi confermò che tra Freddie e Michael vi era una sincera amicizia, durata nel tempo. All'epoca avevo già letto il suo libro e il breve scambio di battute mi confermò l'impressione generale avuta attraverso quelle pagine: Jim era una persona mite, catapultata all'improvviso in una dimensione mediatica difficile da gestire, ma non per questo meno desideroso di raccontare il suo Freddie e di condividere con i fans un pezzetto di quella vita straordinaria che la sorte gli ha concesso.

I miei anni con Freddie Mercury è un libro controverso, dibattuto dai fans di tutto il mondo, soprattutto perché descrive una Mary Austin difficile da digerire per tutti quelli che hanno amato Freddie e sono in qualche modo convinti (sbagliando il più delle volte) di conoscerlo. Il fatto è che Jim ha ricevuto un trattamento diverso da quello che si aspettava e soprattutto l'allontanamento da Garden Lodge ha rappresentato per il suo spirito irlandese uno smacco, la cui onta doveva essere lavata al più presto con la propria versione dei fatti. 

È uno spirito, mite eppure battagliero, che trasuda da ogni capitolo, anche laddove Jim si limita a raccontare dell'incontro con Freddie e dei vari episodi che ne hanno caratterizzato il rapporto. Si ha la netta sensazione che Hutton voglia rivendicare la conoscenza intima e profonda di un Freddie diverso da quello percepito dai fans e addirittura diverso da quello che cantava nei Queen. Del resto anche per Brian, Roger e John c'è pochissimo spazio nel libro, quasi che fossero tre colleghi di lavoro, la cui apparizione nella vita di Freddie era fugace e limitata ai concerti e alla registrazione di nuove canzoni. 

Ma chi conosce i Queen sa quanto tra i quattro vi fosse un rapporto di amicizia sincera e uno spirito di collaborazione che li portava a trascorre mesi su mesi costantemente assieme. Impossibile, in altre parole, svincolare il racconto della vita di Freddie da quella dei Queen. Jim invece separa le due cose e questo è un modo di vedere le cose che francamente mi convince molto poco.

Allo stesso modo non riesco a condividere, nemmeno dopo anni di confronti con altri fans, la visione che Hutton dà della figura di Mary Austin. A sua volta anche Mary è un personaggio oscuro, non avendo mai voluto calcare una ribalta che era lì, davvero a portata di mano. Mary avrebbe potuto scrivere libri, rilasciare interviste e vivere contornata da mille telecamere. Invece ha preferito mantenere un atteggiamento che è, in una parola, di grande rispetto per Freddie. 

Se da una parte i Queen non potevano (né possono ancora oggi) esimersi dal raccontare il compagno e celebrarne la musica, Mary ha avuto di fronte a sé una scelta e credo sia doveroso riconoscerle il merito di non aver abuso del proprio ruolo. Ma Jim non è tenero con lei e nel suo libro la dipinge come una sorta di “strega” (il termine è mio) che coglie l'occasione di sbarazzarsi dello stesso Hutton e di altri collaboratori e amici di Freddie per diventare l'unica depositaria delle sue proprietà, negando secondo l'interpretazione di Hutton, un riconoscimento doveroso a chi è stato fino all'ultimo istante fedele amico e compagno del cantante.

Una visione di parte si diceva che, in quanto tale, può essere accolta dal lettore oppure rigettata a seconda della propria sensibilità. Tuttavia Jim tralascia un dettaglio a mio avviso essenziale: le ultime volontà di Freddie. 

Il testamento redatto con l'assistenza di Jim Beach è un atto pubblico, che circola in rete da anni ed è quindi accessibile a tutti. In esso sono contenute le disposizioni volute da Freddie per amici, famigliari e collaboratori e non è possibile confutarne in alcun modo le determinazioni. 

Un testamento non è un documento come tanti altri, ma rappresenta un momento di immenso dolore per chi lo scrive. Pur avendolo scritto con l'ausilio tecnico di Beach (che è, ve lo ricordo, un avvocato) è in ogni caso un atto solitario, attraverso il quale Freddie ha fatto i conti con se stesso, richiamando alla memoria persone, ruoli e affetti e sancendo per ognuno una precisa volontà. Non so se lo si possa definire l'ultimo atto d'amore, del resto si parla di case, denaro e diritti d'autore, ma rappresentano il pensiero di Freddie Mercury. 

Può non piacere, può generare risentimento, ma va accettato. Ecco, l'errore di Jim sta in questo, nel non essere stato capace di accettare, forse perché le aspettative, morali più che materiali, erano superiori rispetto a quanto Freddie effettivamente desiderava per chi gli stava attorno, anche se è innegabile che nel suo testamento è stato davvero generoso con molti, Hutton compreso.

Cosa rimane dalla lettura di questo libro? C'è anzitutto da intendersi su cosa un fan voglia (e debba) conoscere del proprio artista preferito. Conta solamente la musica o è necessario conoscere anche l'intimità di Freddie, ciò che pensava, tutti gli sbagli o anche le cose belle che ha fatto in vita e che per anni sono rimaste nella sfera privata dell'artista? 

Tante domande, poche le risposte perché, ancora una volta, siamo nel campo della soggettività. Eppure, tutte le volte che metto su un disco dei Queen, ogni volta che la voce di Freddie si diffonde e riverbera nell'aria, sento di non aver bisogno di nient'altro che questo. 

Non servono le parole, i racconti, le spiegazioni e i punti di vista. Brian May ha detto: “Freddie era un cantante di canzoni e un'amante della vita”. È una frase potente perché riassume perfettamente ciò che Freddie voleva essere per tutti noi, che siamo quelli che stanno da questa parte del palco, all'ora come oggi.

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