Queen+Adam Lambert: 10/02/2015 - Il racconto della notte ad Assago

Una mano premuta sulla bocca e gli occhi sprofondati in ciò che hai desiderato per tutta la vita e che finalmente e' giunta a te attraverso anni di attesa e ora avanza inesorabile al ritmo pulsante di One Vision. Inizia cosi' il concerto dei Queen+Adam Lambert e sebbene non sia la mia prima volta, il cuore accelera, poi perde mille battiti e infine riparte.


Dalla tribuna Gold posso ammirare il pubblico e sentirne l'emozione che sale verso l'alto e si spande all'interno del Forum come un fuoco che brucia come solo la vita sa fare. Osservo i volti di chi per essere qui ha lasciato a casa mogli, mariti e figli, di coloro che hanno cercato compromessi sul posto di lavoro e su ognuna di quelle facce io mi specchio e vivo le storie di ognuno. E poi ci sono tutte le persone che conosco, perche' questa e' stata anche la giornata del ritrovarsi o dell'abbracciarsi per la prima volta.

Cerco di ricomporre i frammenti di questa storia ascoltando la Track13 di Made in Heaven, la stessa che ci ha accompagnati verso l'inizio del concerto. Sono state dette molte cose su questi venti minuti di sola musica, ognuno ha la propria opinione. La mia e' che sia il racconto della vita di Freddie e sentirla prima del concerto dei Queen e' un modo meraviglioso di invocarne lo spirito. Ne abbiamo bisogno noi fans e, ancora di più, chi presto salirà su quel palco che resta celato dal simbolo della band. A differenza dei precedenti tour non c'e' solo la fenice, quasi a voler simboleggiare una ritrovata unita' nonostante tutto. Il passato che non grava piu' prepotente sul presente ma che ne sposa gli intenti. E' questa la sensazione che la collaborazione con Adam trasmette a tutti noi che qui, in questa arena, siamo un corpo unico, un'onda pronta a farsi travolgere da una marea ancora piu' impetuosa.

One Vision esplode all'improvviso attraverso la sagoma di Brian, chino sulla Red Special giusto il tempo di rivelare a tutti noi il palco incendiato di rosso. Nel mezzo c'e' Adam Lambert, il braccio teso in alto. Offre le spalle al pubblico e fissa Roger Taylor la cui batteria ci fa tremare, sussultare. Le urla esplodono e non e' piu' tempo di nascondere le labbra dietro le mani. Questo e' il momento dell'estasi, del rock che scorre come piombo fuso e brucia ogni cellula, invade ogni cavità, disintegra i pensieri e dona la certezza che la realta' puo' essere bella come un sogno. One Vision è la perfetta macchina del tempo che fa tornare in vita ancora una volta Wembley, quasi che la musica sia capace di bruciare gli anni e la distanza. Il sipario che si alza, le luci che esplodono hanno la forza di sollevare il pubblico, di scuoterlo, soggiogarlo. Non ci si crede alla bellezza di questa apertura. Nessuno è più nel parterre e anche le tribune sono vuote: siamo tutti su quel palco e ogni dubbio è stato dissolto. Visivamente lo spettacolo è grandioso fin da subito e anche vedere per la prima volta Adam Lambert sul palco non richiede rodaggio, accettazione. Lo capisci subito che quello è il suo posto, perché non c'è usurpazione nei suoi movimento, nessun sintomo di sostituzione nella sua figura vestita di pelle. E' come se si fosse ricavato una dimensione nuova, che non collide con l'assenza di Freddie ma, anzi, la colma con la diversità dello stile e l'onestà che trasuda dal suo stare sul palco.

Quando One Vision lascia posto a Stone Cold Crazy, il colore dominante è il viola e anche stavolta la macchina del tempo fa il suo infaticabile lavorio e Rainbow squarcia il velo del passato e diventa un presente potente, disarmante. L'incredulità è dipinta sui nostri volti, perché troppe cattiverie sono state dette su Brian e Roger. E invece eccoli, taglienti come rasoi esattamente come accadeva negli anni Settanta. La batteria colpisce, guida i battiti cardiaci accelerati, ferisce dentro per liberare energie nuove. La gioia pervade il pubblico, soprattutto quando può essere davvero parte dello spettacolo urlando a perdifiato i cori di Fat Bottomed Girls. Osservo chi sta di fronte al palco, tutti coloro che hanno affrontato la fatica dell'attesa, la stanchezza e il freddo. Sono una marea, uno tsunami che la chitarra di Brian domina e omaggia, quasi che tra lo strumento e i fans ci sia un reciproco scambio di energie. I Queen suonano, Adam invita a cantare e tutti noi siamo i perfetti recettori del messaggio, singole cellule di un organismo, il pubblico di questa meravigliosa band.

Il tempo resta incardinato ai primi anni Settanta grazie a In The Lap Of The Gods, Seven Seas Of Rhye e Killer Queen. Lo confesso, per quest'ultima sono rimasto col fiato sospeso. Ho sentito sulle spalle il peso delle polemiche, delle accuse, di ogni singola cattiveria e anche i dubbi che nutrivo io stesso su una performance così teatrale e sopra le righe. Tutto questo mi ha spinto a seguire il brano con trepidazione. Eppure sono bastati pochi secondi per capire che anche quel momento così tanto di Adam Lambert non è sbagliato, fa parte del gioco, del divertimento. Accanto a me c'è chi ride e tra il pubblico del parterre nessuno osa davvero inveire contro questo magnifico frontman. Si, è questa la definizione più corretta per Adam. Stare lì su quel divano, proprio al centro della folla, senza alcuna difesa è una pantomima teatrale senza paracadute, quasi che Adam abbia voluto dire a un pubblico non completamente suo: io sono qui, questo è il mio stile e lo offro a voi senza possibilità di fuga.

E' ammirazione la mia, che deriva anche dalle qualità vocali di un cantante che ha stretto i denti per essere su quel palco e che non cede di un passo, nemmeno di fronte al timore di sbagliare una nota. E Adam non sbaglia. E' sontuoso, ammiccante, divertente e profondamente rispettoso di noi e della storia dei Queen. Lo capisci guardandolo sul palco. Lo accetti nel momento in cui inizia a cantare le prossime due canzoni, I Want To Break Free e Somebody To Love. I Queen hanno raccontato l'amore gioioso, quello che fa rima con la libertà, ma anche l'amore disperato, che non arriva mai, ma che quando ti prende ti trascina e ti porta via. Per interpretare nel modo giusto certi brani bisogna averlo vissuto l'amore, bisogna aver sofferto per esso ed è necessario avervi trovato anche la pace.

Ho la netta sensazione, ascoltando Adam, che sulle sue spalle gravi il peso di tutto questo e il suo stare sul palco, il suo ammiccare e giocare col pubblico è il riflesso del bisogno di comunicare, raccontare ciò che i testi delle canzoni gli trasmettono. Nel considerare Adam nel suo ruolo non bisogna mai dimenticare che queste non sono le sue canzoni ed è quindi indispensabile da parte sua uno sforzo interpretativo in più, per non tradire il significato originario dei pezzi ma anche per inventarne di nuovi attraverso la mediazione della sua sensibilità. Il risultato è magnifico, convincente e coinvolgente, tanto da spingere tutto il pubblico presente a segurlo, a fidarsi dei suoi vocalizzi che si fanno via via sempre più intensi, efficaci, liberi dal timore di non riuscire a conquistare la platea.


Vi è mai capitato di attendere in stazione l'arrivo di una persona importante e di camminare su e giù lungo il binario in attesa? E poi quando finalmente giunge chi aspettavate non puoi fare altro che corrergli incontro? E' questa la sensazione che trasmette Brian May quando guadagna la pedana centrale del palco, sommerso dagli applausi, la mano sul cuore a simboleggiare che tutti noi siamo lì dentro. E' il momento di Love Of My Life e '39, anticipate però dal selfie-stick di Brian che riprende il pubblico, lo rende protagonista assoluto, come se volesse portare via con sé un ricordo di ciò che ha vissuto ancora una volta, inaspettatamente. Si vede che Brian ama farsi sorprendere dalla vita, non c'è costruzione in lui nonostante la sapienza dell'artista che sa ciò che il pubblico vuole.

Ma è anzitutto una persona vera, autentica e vederlo su quel palco da solo, anzi no, dolorosamente da solo è una ferita e allo stesso tempo una gioia. Proprio come Love Of My Life che mi fa piangere, mi piega in due, mi riduce in mille frammenti mentre le braccia di chi mi sta accanto si tendono verso la figura di Freddie, che non è morto ma è qui con noi, è parte della spettacolo e quella che si vede sullo schermo non è la sua immagine ma la sua presenza, che si avvicina a noi, ci fa cantare e urlare. Freddie, il mio Freddie è nel testo di questa meravigliosa canzone e quando sembra che volti le spalle a noi e a Brian non è un addio. Ancora una volta non c'è commiato mentre lascia il palco. E' solo un arrivederci al prossimo momento, mentre sul palco si concretizza la corale '39, durante la quale Brian viene raggiunto da Roger, Rufus, Spike e Neil.

Dietro le quinte resta solo Adam, pronto a ritornare protagonista della scena, ma tra ancora un po'. Ed è qui che il destino ha disegnato un altro passaggio fondamentale, un ulteriore sintomo che dimostra quanto le cose non accadano per una banale concatenazione di eventi casuali. Gli ingranaggi di ciò che deve essere si mettono in moto e puoi sentirli bisbigliare proprio mentre inaspettatamente inizia These Are The Days Of Our Live. Nessuno di noi se l'aspettava perché durante gli ultimi concerti era sempre stata lasciata da parte. Sentirla è struggente e Roger la interpreta in modo magnifico, mentre le immagini sullo schermo rievocano la storia dei Queen accompagnata dalle nostre urla quando ci mostrano prima Freddie e poi John. E la magia continua con A Kind Of Magic che vede ancora protagonista Roger con una performance vocale stupenda e un assolo di Brian prolungato, felice, quasi che abbia difficoltà a staccarsi dalle armonie del pezzo al quale resta avvinto nella ricerca di nuove sfumature sul tema dominante della canzone.

Un altro momento fondamentale che cattura gli occhi e rapisce il cuore del vero fan è quello dedicato a Roger che duetta alla batteria con Rufus, con un continuo scambio di assoli ciascuno alla propria batteria, letteralmente da padre a figlio, ma non per un ideale passaggio di consegne. In quel momento Roger e Rufus sono due musicisti che raccontano attraverso i propri strumenti la gioia di essere lì su quel palco, la tensione aggiuntiva che deriva dall'essere uno il padre dell'altro. Quanta vita scorre tra loro due, quanta esperienza c'è da una parte e quanta giovane esuberanza dall'altra. E' una meravigliosa Drum Battle quella a cui assistiamo, con Roger che non smentisce la sua raffinatezza mista ad una potenza d'esecuzione senza pari.

Una menzione particolare voglio riservarla a Neil Fairclough: il suo ruolo non è affatto semplice come possa sembrare, sebbene se ne stia tutto il tempo molto defilato sul palco, perché ovviamente la scena è tutta dei Queen e Adam. Eppure anche lui è presente stasera per rendere omaggio a qualcuno che non c'è, stavolta per scelta. John Deacon è il bassista dei Queen, lo dico al presente perché detesto riferirmi a lui al passato e non averlo di fronte è qualcosa che non può passare inosservato. Il suo stile, la sua sapienza di musicista e il suo carattere talmente complesso che ancora oggi resta inesplicabile, erano elementi essenziali per la musica dei Queen, soprattutto dal vivo dove con Roger costituiva quell'architrave sul quale Brian e Freddie potevano costruire le loro meraviglie sonore, canzone dopo canzone. Per questo il ruolo di Neil non è semplice ma, anzi, gravoso come solo può esserlo il doversi calare nei panni stretti di un musicista che per noi fans non è raggiungibile. Ma Neil ha dalla sua due fattori fondamentali: la perizia tecnica e l'umiltà, condite da un sorriso spesso raggiante che gli trasmette l'essere parte di questo enorme show. E lui ci ringrazia regalandoci un assolo al basso che ricorda certe pagine di enciclopedia musicale, nelle quali trovano spazio accenni di canzoni come Nevermore, Body Language e una sorprendente The Invisible Man suonata assieme a Roger. Sono piccole perle musicali che si condensano proprio davanti ai nostri occhi e ci fanno sorridere, perché anche certi brevi accenni hanno il potere di entusiasmare chi li ascolta.


Under Pressure non è una canzone come le altre, gode di una vita senza tempo e risulta attuale in ogni decade musicale. Il fatto che siano tornati a riproporla anche in questo tour è l'ennesima delizia per il fan che ha comunque voglia di esaltarsi con i classici dei Queen. La versione proposta sul palco di Milano mette assieme Roger e Adam e ancora una volta il risultato è un duetto che convince ed entusiasma. Non è solo la bellezza della canzone a dominare, ma è la qualità dell'esecuzione che ci spinge a cantare con loro e a seguire con lo sguardo Roger Taylor mentre suona la batteria proprio al centro del parterre. Invidio gli amici che gli stanno attorno e tendono le mani verso di lui. Anche dalla tribuna il colpo d'occhio è magnifico e il pubblico che circonda la band in questo momento è una parte essenziale dello spettacolo. In fondo ho scelto la Gold proprio per questo, per vivere lo show nella sua totalità, perché il rapporto tra i Queen e il pubblico è un meccanismo straordinario che merita di essere ammirato. Si resta ancorati agli anni '80 anche con i due brani successivi, scelti per mettere in mostra le qualità vocali e interpretative di Adam.

Quando inizia a cantare Save Me lo fa da solo, il palco improvvisamente calato nell'oscurità dell'arena e un faro ad illuminare Adam che nel frattempo ha raggiunto una delle due pedane laterali. A guardarlo così sembra stia passeggiando su un ponte: l'aria è mite stanotte e il cielo siamo noi che illuminiamo la scena con i flash dei telefoni e delle macchine fotografiche. La sua voce si spande nell'aria, letteralmente disegna spirali che giungono in ogni angolo e raccontano la meravigliosa storia d'amore scritta da Brian. Chiedere alla persona che ami di essere salvato è un atto di coraggio che solo il cuore è in grado di mettere in campo. Interpretare un testo così intimo e profondo non è facile ma Adam ci riesce con uno stile dolce e delicato, che lentamente si fa accompagnare da Brian e Roger che subentrano dopo le prime strofe. Save Me è una delle canzoni più belle e poetiche dei Queen e solo chi ha ascoltato l'interpretazione di Freddie sa quanto possa essere complicato renderle giustizia. Il fatto che Adam ne sia capace è un'ulteriore motivo di sorpresa e gioia per tutti i presenti.

E le stesse sensazioni si replicano per Who Wants To Live Forever, divenuta nel corso di questo tour una sorta di cavallo di battaglia di Adam, capace anche in questo caso di fare propria l'intensità originaria del brano, pur mantenendo fede al proprio stile. Sono questi i passaggi fondamentali per comprendere davvero il valore di questa collaborazione. Il fatto che Adam resti sincero e proponga il suo modo di cantare e stare sul palco ha il potere di convincere tutti noi che quello è il posto giusto per lui. Chi ama Freddie non accetta le imitazioni e non tollera chi prova a cimentarsi nel suo ruolo, a indossarne i panni. E' una lezione meno scontata di quanto non si creda e perderla di vista è facile. In questo senso nessuno potrà mai smentire il fatto che Adam è un'artista nel senso più autentico del termine. Può non piacere il suo stile, ma ha qualità enormi e le offre al pubblico senza remore e, cosa più importante, senza risultare arrogante.

Il Guitar Solo è un altro momento classico dello show, nel quale i riflettori e gli sguardi sono tutti per Brian May che domina il palco con la sua Red Special. La scelta per questo tour è di mettere assieme i passaggi tipici di Brighton Rock con Last Horizon. Tanti anni fa scelsi questo nickname per puro istinto, una piccola intuizione dettata dalla necessità di iscrivermi a un sito. In quel momento non avrei mai pensato che mi avrebbe accompagnato fin qui, rendendomi riconoscibile a tanti di voi. Qualcuno mi ha chiesto: perché proprio questa canzone? La risposta è nell'esecuzione di Brian, immerso tra le stelle, circondando da un orizzonte infinito. Mentre lui suona, lo spazio attorno a noi si dilata, assume la forma della sua sagoma che si muove sul palco, con quella sua tipica andatura china sulla chitarra, quasi a voler escludere tutto il resto. C'è saggezza nel suo assolo, sapienza e forza, che fanno sprigionare dalle corde pizzicate dalle sue dita suoni meravigliosi, ora crudi e graffianti, ora malinconici.

Last Horizon è la melodia perfetta, che non ha bisogno di un testo, perché ognuno di noi può scegliere le parole più adatte per raccontare l'emozione che trasmette. A differenza del 2008 è una versione solitaria, che rende Brian protagonista assoluto di quindici meravigliosi minuti che catturano tutto il pubblico. La Red Special parla, racconta le sue storie, fa fluire vibrazioni che presagiscono i due pezzi successivi, Tie Your Mother Down e I Want It All. Entrambi i brani riportano in scena la band al completo e ci restituiscono i Queen nella loro versione più dura e tesa e la musica diventa una corsa irrefrenabile di mani alzate al cielo e piedi che non possono stare fermi. Il pubblico del parterre salta, canta, ricorda ancora una volta una marea, mentre noi che siamo sugli spalti impersoniamo la roccia che rotola a valle, che scuote il forum.

Radio Ga Ga invece è il ritorno all'ennesimo inno grazie al quale tutti noi siamo protagonisti. Sullo schermo scorrono le immagini tratte da Metropolis e la sensazione di essere improvvisamente finiti nel video del 1984 è fortissima, gioiosa come già successe anni fa a Roma. Il confronto con il concerto con Paul Rodgers non manca, ma non è qui che voglio parlarne, perché ogni fase della storia dei Queen merita un capitolo a parte, senza l'obbligo del paragone ad ogni costo.


Crazy Little Thing Called Love introduce la fase conclusiva del concerto e ancora una volta Adam dimostra di aver compreso il senso del pezzo, manifestando allegria e ironia durante l'esecuzione e accompagnando il pubblico nei cori, perché alla fine è un grande evento corale quello a cui stiamo partecipando. Quando inizia Bohemian Rhapsody l'emozione torna prepotente a pervadere i cuori. Sappiamo tutti cosa sta per succedere, lo spirito immortale di Freddie torna ad essere la parte dominante dello show. Quando il suo volto appare sullo schermo le braccia si protendono ancora una volta verso di lui, lo vogliono toccare, accarezzare, stringerlo in un abbraccio che è anzitutto un atto d'amore e di riconoscenza per esserci sempre, ancora una volta qui con noi.

Prima che We Will Rock You ci conquisti per l'ennesima volta, c'è il tempo per la band di radunarsi sul palco e salutare brevemente il pubblico in festa. Naturalmente non è la fine dello show, ma il palco resta vuoto per alcuni minuti, mentre sullo schermo il simbolo dei Queen si trasforma fino a lasciare spazio alla grande Q nella quale è incastonata la corona, un vessillo di regalità, di autentico trionfo. Quando Roger Taylor torna al suo posto dietro la batteria, il forum è scosso dalle nostre mani e dai piedi che battono a terra. E' il presagio di quanto sta per succedere. Roger esegue la prima battuta di We Will Rock You, si ferma e poi riparte. Si ferma ancora e infine da sfogo al ritmo ipnotico del brano che ci avvolge, ci scuote nel profondo e ci rende la parte più bella dello spettacolo. Cantare questo brano è un atto liberatorio come solo gli inni sanno esserlo. Adam ci guida, ci invita a gridare sempre più forte e anche i più scettici comprendono che quella corona non la indossa con arroganza ma, ancora una volta, con l'umilità di chi sta rendendo omaggio ai Queen.

We Are The Champions è la logica conclusione di uno spettacolo che ci resterà addosso per sempre. Adam canta solo le prime strofe, poi lascia che sia il pubblico a salire idealmente sul palco e noi cantiamo con foga, col sorriso sulle labbra, grati a questi magnifici musicisti di averci concesso ancora una volta di far parte della storia dei Queen. Durante l'inno finale, mentre Brian, Roger, Adam, Rufus, Neil e Spike ci salutano, gli occhi sono lucidi, le mani mani battono sui cuori, perché è da lì che sono sgorgate le emozioni di questa serata ed è quello il posto in cui tutto resterà custodito.


Cosa resta alla fine? Di certo non la sensazione che sia finita qui. A differenza del passato, stavolta non è la nostalgia a predominare, ma un senso di appagamento che tuttavia fa presagire nuove opportunità, orizzonti a disposizione, in fondo ai quali si agitano energie finalmente rinnovate. Ma resta anche la consapevolezza che Adam è la scelta giusta. Le sue qualità vocali non le discute più nessuno, tranne quei pochi irriducibili arroccati su posizioni velleitarie per il puro gusto di darsi un tono. Ma tutto questo non ci riguarda più, mentre ci appartiene questo artista, cresciuto e maturato durante questo tour in modo forse inaspettato.

E resta la convinzione che Adam non sia su quel palco per sostituire ma per offrire un'opportunità altrimenti impossibile da perseguire, tanto per i Queen quanto per noi. E poi ci rimane addosso la gioia di sapere che Brian e Roger sono ancora capaci di suonare in modo straordinario nonostante il peso degli anni. Nei loro volti abbiamo letto per tutta la durata del concerto la felicità di essere qui, adesso assieme a noi. È stata una notte di musica, di fottuto rock'n'roll, di canzoni “usa e getta”, di riff taglienti come rasoi, di brani che ti incidono la carne come tatuaggi indelebili. È stata la notte dei Queen e di Adam Lambert ed è stata soprattutto la nostra notte. Nessuno potrà togliercela, non ci saranno polemiche in grado di annullare l'emozione e la certezza che i Queen esistono ancora, in una forma nuova, completamente diversa dal passato eppure intimamente connessa con ciò che è stato. Su quel palco abbiamo visto scorrere la linfa vitale che solo il rock sa trasmettere. Oggi finalmente possiamo dirlo: questi sono i giorni della nostra vita. E noi siamo parte della storia dei Queen.