Qualche considerazione sul tour 2017 dei Queen + Adam Lambert



Con la data di Birmingham dello scorso 16 Dicembre si è concluso, almeno per quest’anno, il tour dei Queen + Adam Lambert. È stata una corsa davvero lunga, che a Novembre ha raggiunto anche l’Italia con l’emozionante concerto alla Unipol Arena di Bologna. In attesa che la band riparta a Febbraio con le date già fissate in Nuova Zelanda e Australia, è tempo di fare un bilancio di questa ennesima incarnazione dei Queen assieme ad Adam Lambert.


C’è un primo dato davvero interessante emerso in questi mesi e confermato dalle tante recensioni ed opinioni, sia giornalistiche che di semplici fan come il sottoscritto. I Q+AL sembrano essersi finalmente liberati dei paragoni con il passato. Il merito è dello show, allestito per dare risalto ai 40 anni di News Of The World, ma che ha perso quegli elementi di nostalgia che avevano caratterizzato i precedenti tour, soprattutto quelli che avevano visto Paul Rodgers affiancare Brian May e Roger Taylor.

Scelte come il far cantare Bohemian Rhapsody al solo Adam, invece che usare eccessivamente i nastri originali con la voce di Freddie, e la presenza di quest’ultimo legata al momento finale di Love Of My Life sono risultate, alla lunga, delle mosse vincenti. Naturalmente la presenza di Freddie Mercury è qualcosa di palpabile in ogni momento dello show. Del resto tutte le canzoni proposte nel tour sono indissolubilmente legate a lui, così come gli elementi scenici, che non fanno che richiamare in ogni caso il glorioso e indimenticabile passato.

Tuttavia stavolta si è avvertita la netta sensazione che la band abbia voluto fare un passo in più verso la costruzione di una propria identità, mai davvero slegata dal passato, eppure profondamente radicata in un presente che Brian e Roger dimostrano di voler vivere fino in fondo. Detto in altri termini, i due musicisti si sono ripresi una volta per tutte ciò che gli appartiene di diritto: la band che hanno contribuito a creare e a rendere immortale.

Molti storceranno il naso di fronte a questa visione. Ma non c’è da temere. I Queen sono e resteranno per sempre quelli che abbiamo conosciuto fino al 1991. Semplicemente oggi c’è una storia diversa che vale la pena vivere. Se lo meritano Brian e Roger e dopotutto lo meritiamo noi fan, mai del tutto rassegnati all’idea che la storia della nostra band preferita fosse davvero terminata.

E, a proposito di meriti, non possiamo che tributare sincere lodi ad Adam Lambert. Nel corso di questi anni ha imparato a limare quelle caratteristiche che lo rendevano troppo distante da ciò che le canzoni dei Queen hanno bisogno per essere proposte al meglio. Mi riferisco soprattutto al suo modo di cantare, un tempo troppo orientato al bisogno di stupire. Oggi, e più che mai nel tour appena concluso, Adam ha preso maggiore confidenza con il palco ma anche (e soprattutto!) con il pubblico, limando i suoi eccessi vocali. In un certo senso si potrebbe dire che Adam ha imparato a cantare senza strafare.

Allo stesso tempo è rimasto fedele a se stesso. Non ha rinunciato agli abiti sgargianti (e spesso kitsch, inutile negarlo) e alle pose esplicite che lo hanno reso una vera e propria icona gay. Di fatto ha portato in scena il proprio spettacolo, inserendolo sempre meglio in un contesto ben più grande e riuscendo ad essere credibile anche per chi nutriva i più ferrei dubbi. Perché se c’è un risultato che lui e i Queen hanno raggiunto in questo tour è l’assoluta credibilità. I Q+AL funzionano come band. E, proprio per questo, continuo a nutrire il convincimento che il passo successivo, quello di entrare in studio “per vedere che succede” andrebbe fatto.

Ciò anche per dare nuova linfa ad uno spettacolo che, al netto di un palco e di un impianto luci ai limiti dell’incredibile (le animazioni del robot Frank resteranno indelebili nella memoria di tutti), rischia col passare del tempo di perdere linfa vitale.

Perché, paradossalmente, è proprio la musica l’aspetto più debole del meccanismo creato dai Q+AL. Sebbene Brian e Roger siano ancora due musicisti in grado di “far mangiare la polvere” a buona parte dei propri colleghi giovani e meno giovani (è incredibile come riescano ad essere ancora quel mix inarrivabile di potenza ed eleganza), e al netto dell’indiscutibile bravura di Adam e anche di Neil Fairclough al basso, Tyler Warren alle percussioni e del sempre prezioso Spike Edney alle tastiere, ciò che è mancato in questo tour è una setlist in grado di stupire per davvero.

I Queen, lo dico da tempo ormai, sono intrappolati nei Greatest Hits, a tal punto che anche il prossimo tour dei Queen Extravaganza sarà incentrato sul primo GH. È un vero peccato. Il repertorio della band è talmente vasto (forse il più ampio della storia del rock e del pop in termini di successi e di brani che meriterebbero una riscoperta) che le setlist potevano essere ben più articolate. Certo, c’è da tenere conto di un aspetto tecnico forse sottovalutato: la complessità del palco e degli effetti richiedeva forse una certa staticità, non potendo sera dopo sera strutturare ogni volta uno show troppo diverso dai precedenti. Inoltre, il dover eseguire i medesimi brani (a distanza spesso di sole 24 ore) ha permesso a Brian, Roger e Adam di creare la giusta amalgama e costruire una struttura sonora via via sempre più perfetta. Perché agli anni che passano bisogna rendere il giusto rispetto, così come alle difficoltà di cantare un catalogo musicale così vario e faticoso.

Se da un lato, quindi, l’operazione nostalgia sembra definitivamente accantonata, dall’altra resta in sospeso (almeno per chi vi scrive) la necessità che lo spettacolo venga sì portato ancora avanti, ma nutrito con nuove canzoni mai proposte finora dal vivo, per evitare che magnifici concerti come quelli visti in questi mesi si trasformino, al di là delle singole intenzioni, in mero intrattenimento.